
Parlando ancora di tradizioni, ho ripensato a quando una quindicina di anni fa, presi parte ad un corso di cucina. Si, sono anche una cuoca ma questa è un'altra storia. Ricordo ancora quei giorni stancanti, frenetici ma ricchi di cose che volevo approfondire e persone con cui condividerle.
Tra una presentazione e l'altra, tra lezioni e cene da preparare in vista degli esami, ogni mattina ero solita percorrere il gran corridoio che divideva le cucine dalla sala delle dimostrazioni.
Questa sala era nata proprio per ospitare lo chef e la brigata di turno, che con estrema maestria e solerzia preparavano la cena di gala a conclusione di ogni trimestre. Ricordo ancora il fermento, i profumi, la precisione e la velocità che dominavano la sala in quegli istanti prima ancora che tutto fosse concluso.

L'adrenalina era palpabile, sapevo bene cosa volesse dire impegnarsi fino allo sfinimento in vista di occasioni così importanti, dove era facile che presenziassero chef rinomati.
Quando finalmente la serata volse al termine, non ci pensai due volte e con la scusa di affilare i miei coltelli, visto che il macchinario preposto allo scopo era proprio nella “famosa” sala, entrai. Con molta sorpresa parlai con uno degli chef presente all'evento. Ma non ebbi troppa fortuna, perché si ritirò ben presto giusto il tempo dei complimenti.
Al suo posto, mi raggiunse un componente della brigata, un giovane ragazzo (poi mi raccontò provenire del Kyūshū), tanto fiero nella sua divisa e dall'incedere sicuro.
Così dal nulla il dialogo prese vita naturalmente, e la cosa mi parve alquanto strana essendo io abbastanza riservata, eppure in quel frangente cambiai completamente atteggiamento. Sicuramente a causa del tema della conversazione. (Amavo e amo tuttora la cucina, nel tempo libero mi diletto nella preparazione di dolci e sono molto curiosa del mondo culinario in generale). Quindi con immenso piacere intavolammo una lunga chiacchierata, alla quale si unirono anche altri componenti della stessa brigata.
Devo dire che all'epoca questo evento fu qualcosa di incredibilmente interessante, perché per la prima volta mi accorsi di quanta attrattiva e devozione vengano riposte nella tradizione dell'antica arte culinaria soprattutto quella italiana, e di tutto ciò che essa rappresenta nel mondo. Il punto focale della chiacchierata fu proprio quello.
Mi spiegò con tutta la precisione possibile, nonostante qualche difficoltà linguistica, quanto tempo avesse impiegato ad organizzarsi per questa esperienza, e quanto abbia dovuto attendere per far parte di quella specifica brigata. (Si, ero già informata a riguardo perché conoscevo bene il pasticciere, e sapevo che occorreva essere iscritti ad una lista di attesa per almeno due anni prima di sperare in un'eventuale ammissione), quindi lasciò “momentaneamente” tutto per seguire proprio quello specifico pasticciere di cui aveva studiato praticamente ogni ricetta.
Così tra una parola e l'altra, elencammo gli ingredienti per la preparazione di alcuni dolci classici come voleva la tradizione. L'intento era quello di riuscire a ricordarli tutti, secondo i canoni della pasticceria italiana.
Questa formazione era ancora nel pieno del suo divenire, mancavano oltre tre mesi ma confrontandomi con quello che aveva appreso fino a quel momento, sicuramente sarebbe rientrato preparatissimo.
E tra un controllo rapido ai Babà in piena immersione al rum e preparazione di glasse varie e farciture, carico di aspettative come solo i giovani hanno quando si apprestano a lavorare sodo per gli obbiettivi prefissati, aggiunse con molta fierezza di aver intenzione di approfondire anche altro. Dunque, non tentava solo affermarsi nel campo della pasticceria professionale, ma aspirando ad alti livelli, voleva cimentarsi in altre preparazioni, perché come mi spiegò l'intento era quello di proporre al rientro nel ristorante di famiglia, della buona cucina tradizionale italiana dall'antipasto al dolce alternandola a quella locale.
Evidentemente, sentiva forte l'esigenza di accostare per quanto possibile due tipi di cucina culturalmente differenti, che per certi versi aveva già intuito potessero essere abbastanza attraenti agli occhi degli avventori abituali e nuovi.
Questo suo progetto mi fece ripensare al concetto di “itameshi” (イタメシ), termine coniato dall'unione di italia e meshi (pietanza/cibo), che sta ad indicare la fusione e al contempo l'esaltazione di ingredienti e stili culinari diversi.
Ancora oggi, sembra possibile provare questo stile culinario nei locali che spesso incontriamo viaggiando, all'interno dei quali vengono riproposti piatti della tradizione italiana non strettamente legati all'originale, ma che cercano di esaltarne le caratteristiche e l'aspetto. Un tipo di concezione culinaria dalle molteplici difficoltà, visto che non è sempre possibile reperire gli stessi ingredienti freschi, a volte anche le materie prime sul posto, specie se riferiti a ricette non usuali per la cultura del territorio.
Nonostante questo, l'idea di “itameshi” ha la sua valenza anche per i turisti, capita infatti che la domanda di piatti conosciuti sia richiesta proprio perché in un posto nuovo, non tutti sono disposti a provare ricette tipiche esclusive della località scelta. Insomma è anche un modo come un altro per “confortare” il turista poco avvezzo a provare piatti che non conosce del tutto.
Ma 'itameshi” ha precedenti degni di nota. Una sua prima “introduzione” nella nazione nipponica da parte di un italiano, diede seguito a numerosi esempi in tal senso. Oggi numerosi sono i ristoranti che seguono questo modello culinario in diverse zone del Giappone.
Dopo l'apertura del primo ristorante di cucina italiana “itamehiya” a Niigata ad opera del torinese Pietro Migliore, intorno al 1881, i piatti nostrani ebbero un enorme seguito, ricevendo apprezzamenti quasi quanto e oltre l'arte culinaria francese, da sempre considerata di livello superiore secondo i canoni classici della cucina in generale.
Un occhio allenato, o perlomeno che conosce i piatti della tradizione italiana, sa perfettamente cosa aspettarsi ad esempio da una pizza , fatta in un locale che segue “'itameshi”, dove gli ingredienti non saranno gli stessi previsti per la ricetta italiana, ma l'aspetto probabilmente la renderà molto simile.
La pizza viene preparata generalmente con mochi , per rendere l'impasto gommoso e croccante con l'aggiunta come condimento di funghi shitake, formaggio, salsa di pomodoro, frutti di mare, uova di pesce essiccati e con un tocco in più, ovvero un pizzico di tabasco. Naturalmente è possibile trovarne di più semplici con meno ingredienti.

Gli spaghetti napolitan spesso vengono preparati con altri tipi di salse e condimenti differenti, vennero cucinati per la prima volta da Shigetada Irie, chef del Hotel New Grand di Yokohama (dopo la seconda guerra mondiale).
In principio la ricetta non prevedeva l'uso del ketchup al posto dei classico pomodoro, ma la sua difficile reperibilità, costrinse lo chef a questa modifica. Mentre tutti gli altri ingredienti quali aglio, prezzemolo, cipolla, prosciutto, funghi, peperoni e olio, erano normalmente disponibili in loco. Anche oggi i piatti possono variare non solo per gli ingredienti proposti, ma anche per cottura, procedimento e preparazione.

Sembra che seguire il modello culinario “itameshi” abbia una motivazione ben precisa, ovvero quella di accontentare un po' tutti, cercando di unire la tradizione italiana all'innovazione giapponese.
Perciò da una parte si tenta di assecondare qualche turista che ricerca piatti “confortevoli”, dall'altra si rispetta e si orienta al nuovo il palato locale, cercando di attrarlo verso il concetto culturale della cucina italiana.
E voi avete provato questo tipo di modello culinario?
